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Un volto per l’insegnamento – riflessioni sul metodo
Anzitutto vi invito a a guardare l’esito del nostro sondaggio “Io e la matematica“: avremo modo di commentarne l’esito più avanti, ma intanto – a nome di tutta la squadra di ToKalon – approfitto per ringraziare tutti quanti per la grande partecipazione!
Questa settimana invece vorrei offrirvi qualche riflessione prendendo spunto da un articolo di Eleonora Fortunato, apparso qualche giorno fa su Orizzonte Scuola (http://www.orizzontescuola.it/metodo-le-cose/). Una frase su tutte sintetizza la tematica trattata:
La ricerca di una base scientifica nell’insegnamento si è veramente troppo appiattita sul metodo, perdendo di vista le cose che si insegnano.
Questo fatto è ancor più evidente nella scuola primaria, come si è potuto evincere anche dal recente concorso a cattedra, di cui sono fortunata reduce. I manuali di preparazione erano infarciti di metodi (o metodologie? Pare ci sia una grossa differenza, che non ho saputo cogliere, ahimé) didattici per rendere la classe più cooperativa, la lezione più partecipata, la didattica più inclusiva. Da un certo punto di vista è vero che, soprattutto con i più piccoli, il come si propongono le cose ha un grande valore per promuovere il loro coinvolgimento affettivo, la loro mimesis – i bambini imparano principalmente per immedesimazione. Però, come ricorda Eleonora Fortunato nell’articolo citato, un insegnante può acquisire tutto questo in maniera empirica, sul campo, con il tirocinio e attraverso il rapporto con i colleghi. Quel che è impossibile imparare per via empirica, e che quindi deve necessariamente essere oggetto di studio per ogni docente, sono i contenuti, le cose che insegniamo.
Oggi assistiamo a un proliferare di metodi, ciascuno dei quali sembra proporre la soluzione a tutti i mali – un po’ come nelle pubblicità. Ciò è evidente in particolar modo nella matematica, territorio ostile. Purtoppo però, è facile riscontrare in tanti di questi metodi errori di contenuto, cosa che non rende più agevole l’insegnamento, anzi: lo complica, per ovvi motivi.
Cosa ha permesso questo sacrificio dei contenuti sull’altare del metodo, in un Paese che vanta una tradizione culturale tra le più influenti dell’Occidente?
La questione è spinosa da trattare, e non è certo questa la sede più opportuna. Mi limito a sottolineare quanto la necessità di appoggiarsi a un metodo evidenzi una fragilità di noi docenti, perché la prima verità fondamentale dell’insegnamento è che si insegna attraverso se stessi. Ciò vuol dire che, attraverso le proprie conoscenze, la propria passione per lo studio, la propria personalità, il proprio modo di relazionarsi agli studenti e alla realtà in generale, si trasmettono conoscenze, e non soltanto: si educa, cioè si fan crescere soggetti in grado di stare al mondo. Insegnare è anche educare, necessariamente.
Le esperienze di altri docenti, spesso condensate in metodi, costituiscono senza dubbio una fonte di arricchimento da tenere in considerazione, ma tanto quanto l’approfondimento delle discipline. Questo bagaglio, poi, unito alla propria personalità, si gioca in classe con gli alunni, e gli esiti sono imprevedibili.
Secondo una celebre citazione del matematico italiano Federigo Enriques,