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La buona battaglia. Lotto perché…
- 06/03/2021
- Pubblicato da: Luigi Regoliosi
- Categoria: ANNIVERSARI MATEMATICA SCUOLA
Ho iniziato a scrivere più volte questo pezzo per parlare del Prof. Giorgio Israel, a cui devo molto di quello che sono oggi. E alla fine ho pensato che il modo migliore per esprimere la mia gratitudine per il dono della sua vita – di cui ho potuto condividere un pezzo di strada seppur breve ma intenso – è di continuare le sue battaglie, come potrò e con chi vorrà!
Ho già avuto modo di ricordarlo il giorno dopo la sua morte come “un uomo che usava il cuore, con la sua esigenza di vero, di bello, di bene, di giusto e che esortava tutti senza paura a fare lo stesso, come auguro a me e a ciascuno“, ma oggi – nel giorno in cui avrebbe festeggiato il suo compleanno – non voglio soffermarmi sul mio percorso con lui, da suo studente a suo collaboratore fino a diventare suo amico.
Così ho scelto di riprendere alcune sue battaglie che oggi vorrei che diventassero anche le MIE, le NOSTRE e condividere uno stralcio dell’ultimo capitolo del libro “Pensare in matematica” (Zanichelli 2012, con Ana Millán Gasca) dal titolo che ho particolarmente a cuore: Restituire la matematica alla cultura.
Lotto perché si comprenda che non esiste innovazione senza un rapporto vitale con la tradizione.
Gli errori più devastanti sono quelli di trasmettere la tradizione come qualcosa di intoccabile o, all’opposto, di ignorarla per inseguire la mitologia del “nuovo” che, senza radici, si riduce a vuota declamazione.
Lotto perché si fermi la medicalizzazione dell’istruzione,
che si basa sulla riduzione di ogni difficoltà di apprendimento a disturbi funzionali, a una condizione di “anormalità”, da trattare non con strategie educative bensì con strumenti psicologici, con supporti materiali e persino decretando per alcuni (troppi) soggetti la loro minorità strutturale e percorsi di apprendimento semplificati e ridotti. Non si tratta certo di minimizzare l’importanza di curare le forme di disabilità. Ma è un affronto alla disabilità e ai veri disabili ampliare la platea dei “disturbati” a percentuali incredibili. […] quello cui si assiste con l’espansione esponenziale delle diagnosi di questi disturbi è una vera e propria fuga dalle responsabilità, una resa, la rinuncia ad affrontare con l’amore e la competenza difficoltà che possono essere superate, e che quantomeno vanno affrontate fino in fondo sul terreno proprio dell’istruzione prima di arrendersi a trattarle come disturbi o malattie strutturali.
Lotto perché nel campo educativo rimanga al centro il rapporto tra maestro e allievo
senza ridurre l’insegnante a “facilitatore”, a una sorta di “animatore” del processo autonomo di apprendimento. È indiscutibile l’esigenza di un insegnamento che fornisca allo studente gli strumenti per procedere con le proprie gambe, che non sia nozionistico, che non sia meramente “trasmissivo”, ma l’insegnamento vero è anche trasmissione di conoscenze e metodi da parte di un maestro.
Lotto perché si comprenda la necessità di una valutazione vera nel sistema dell’istruzione. Infatti
un serio sistema di valutazione non può che nascere come processo culturale di miglioramento all’interno dell’istituzione attraverso il confronto e il controllo reciproco. Questo significa che un sistema di valutazione serio ha senso soltanto come sistema di ispezioni interno all’istituzione e non governato dall’esterno da organismi irresponsabili, sottratti a ogni valutazione e controllo. Tanto più se questi organismi procedono sulla base di quei sistemi basati su indicatori numerici – il che è peraltro spesso reso inevitabile dal fatto che i “valutatori” sono per lo più statistici o economisti della scuola che magari non hanno mai messo piede in un’aula e non hanno alcuna competenza disciplinare. Ogni azione sull’istruzione e sulla ricerca che non metta al centro le persone, la cultura, la conoscenza, è profondamente sbagliata e pericolosa.
Per ultimo ma non meno importante, lotto perché la matematica venga restituita alla cultura, come viene affermato nel capitolo conclusivo del libro “Pensare in matematica”.
Per sottolineare l’unità della conoscenza, la copertina del libro riproduce un dipinto di Botticelli in cui Venere introduce un giovane allievo al cospetto delle sette arti liberali.
La matematica non è una disciplina di calcoli pratici, aridi e noiosi quanto purtroppo necessari. È una disciplina speculativa che ha un rapporto profondo e costitutivo con la filosofia e persino con la teologia. A chi gli chiedeva perché avesse deciso di studiare matematica, un grande matematico italiano, Federigo Enriques, rispondeva: «Per un’infezione filosofica liceale».
Ammetto di aver letto più volte questo capitolo per ricordarmi l’importanza del mio lavoro di insegnante di matematica e – così come dichiarato all’inizio – voglio condividerne un piccolo estratto che mi ricorda cosa vuol dire incontrare dei maestri sul proprio cammino. Buona lettura e – con chi vorrà – combatteremo insieme la BUONA BATTAGLIA!
Molte delle riflessioni di cui ci siamo giovati in questo libro sono frutto di quella straordinaria stagione, nella quale il ripensamento delle idee basilari della matematica gettò nuova luce sulla didattica. Lo spirito dell’epoca si può riassumere nelle parole scritte da Enriques nel suo La matematica nella società e nella cultura [Enriques 1938]:
Abbiamo rilevato il valore delle matematiche in tutti i rami dell’attività scientifica e pratica, nonché la potenza che esse recano allo spirito. Da ciò sorge l’interesse della società a diffondere largamente il possesso della cultura matematica e ad educare con questa larghi ordini di cittadini. Qui si affaccia di solito la domanda se all’insegnamento debba darsi piuttosto lo scopo formativo o informativo. Ma il dilemma è mal posto. Se coll’insegnamento informativo si intende di porgere all’allievo una serie di nozioni da accogliere passivamente come un dono, questo non ha ragion d’essere in alcun ordine di scuole, perché il dono di cosa estrinseca non arricchisce il povero che ne ignora l’uso: il maestro dona soltanto se stesso quando trascina e commuove e comunica qualcosa della propria vita al suo figlio spirituale. L’acquisto della cultura suppone sempre l’apprendimento dell’uso che possa farsene; il quale esige la partecipazione attiva dell’educato, ed ha un valore formativo.
Giorgio Israel, Ana Millán Gasca, Pensare in matematica (2012, p. 465)
Da qualsiasi parte si guardi al risultato, alla matematica viene negato ogni valore culturale. Le motivazioni sono disparate. Vi sono interessi molto materiali: trasformare l’istruzione in un processo di formazione di personale per il mondo produttivo, ai quali si richiedono soltanto “abilità” pratiche. Vi è ovviamente la reazione alla tendenza astratta e formalista che porta a esasperare il polo opposto, e cioè l’enfasi sulle questioni applicate e pratiche, fino al punto di mettere in mora persino alcuni concetti base della matematica: per esempio, riducendo il concetto di funzione alla compilazione e osservazione di tabelle di numeri. L’esasperazione più bizzarra e contraddittoria di questo atteggiamento si manifesta quando si pretende che l’ingresso alla geometria possa risolversi nella dinamica corporea del “sopra-sotto”, “davanti-dietro”; o che l’ingresso nel mondo dei numeri possa risolversi in manipolazioni sui calcolatori. La scienza matematica è un’altra cosa e se essa non piace, se si ritiene che allontani dal mondo della vita, è bene dirlo apertamente (o rendersi consapevoli di condividere questa visione), anziché infilare nella matematica il cavallo di Troia dell’empirismo. Su tale via si ritorna a una visione pre-euclidea. Dovrebbe essere chiaro da quanto abbiamo scritto che a noi non piace lo scientismo e il pan- matematismo, in quanto sono contrari a una visione umanistica, e piuttosto consoni a una visione meccanicista. Ma non riteniamo ragionevole tornare a una visione meramente pratica della matematica. È un grossolano errore per le ragioni che abbiamo spiegato nel paragrafo precedente.
Il nostro paese ha avuto una grande tradizione “culturale” della matematica, rappresentata soprattutto da Federigo Enriques, che si è battuto contro i tentativi di ridurla un sapere puramente pratico; che ne ha difeso il valore filosofico; che ha scavato a fondo la problematica del suo insegnamento producendo anche manuali scolastici di insuperata efficacia e chiarezza. È da un approccio di quel tipo – più che dalle tesi specifiche – che bisogna ricominciare. Occorre ricollocare la matematica nel contesto della storia della scienza e della tecnologia, della filosofia e della cultura. Soltanto così – entro una rete di conoscenze ispirata a una visione umanistica, a una visione ampia e non riduttiva della ragione – è possibile comprendere il valore e i significati della matematica, trovare motivazioni per insegnarla in modo accattivante e profondo, per studiarla con autentico interesse.
Giorgio Israel, Ana Millán Gasca, Pensare in matematica (2012, p. 478)