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Continuiamo nella trascrizione delle perle nascoste all’interno del Dizionario di matematica elementare di Stella Baruk. C’è una voce che è il cuore del testo: CLAUDE. Con questo nome proprio (leggi “Clod”: in francese, si tratta di un nome che si adatta sia a femmine che a maschi) l’autrice si rivolge agli studenti di tutti i tempi a cui dedica il Dizionario.
I. Claude, ragazzo o ragazza, rappresenta tutti gli allievi e le allieve che si sono susseguiti nel corso del tempo, ma è anche una persona alla quale è dedicato questo dizionario. Claude, nell’infanzia, ha dovuto affrontare la scrittura dei numeri e il senso delle operazioni, poi, ragazzina o ragazzino, ha dovuto battersi con percentuali e frazioni; ora, alle scuole medie, si cimenta in un impari faccia a faccia con le grandi figure di Talete e di Pitagora; più tardi, alle superiori, si interrogherà sulle funzioni o sui logaritmi.
Claude è dunque una persona: perciò l’autrice di questo dizionario, in questa particolare voce, è obbligata a parlare in prima persona. Deve abbandonare quel tono e quella costruzione del discorso che si pensa propongano un sapere senza fratture, chiaro e logico, davanti al quale non esistono che i fallimenti di chi lo riceve e non lo sa restituire come sarebbe conveniente fare. Io posso dunque dire che questo dizionario non sarebbe esistito se tutti gli allievi e le allieve rappresentati da Claude, arrivati carichi dei sospetti che i brutti voti in matematica facevano pesare su di loro, non mi avessero indotto, con le loro domande, a cambiare tono e costruzione.
Claude che, a qualunque età, parla, risponde, discute, contraddice, in una parola vive, si ritrova, “in matematica”, a non essere altro che un brutto voto, poi molti brutti voti, che hanno per conseguenza il disinteresse, quindi l’angoscia, l’indifferenza o la paura, le risposte date come un automa o il silenzio di morte. La morte annunciata di qualcosa che, in quel luogo preciso, è un’intelligenza che ha smesso di funzionare. Come, perché accade questo?
Perché un’intelligenza arriva così “facilmente” a essere paralizzata proprio di fronte a un sapere che, più specificamente di altri, dovrebbe in teoria permettere di ottenere dei risultati? Molto semplicemente perché il risultato non è buono, e il voto non valuta nient’altro che un sistema, quello scolastico, che non sa che cosa valuta quando dà i voti. Perché in un corso di matematica accade tutt’altro che uno scambio tra un insegnante che insegna e allievi più o meno dotati per ricevere questo insegnamento. Perché in particolare le risposte ritenute assurde, gli errori giudicati grossolani non sono in alcun caso, nel momento in cui hanno origine, il prodotto di un’intelligenza che sarà deficitaria in matematica, ma che curiosamente è sufficiente per consentire all’essere incompleto che ne dispone di fare altre cose, per esempio studi letterari o tecnici.
Per “interposta matematica”, l’ombra del sospetto a poco a poco oscura l’intelligenza, la paralizza, a volte solo in matematica, ma altre volte in tutte le materie.
II. Perché io ho avuto la fortuna di non essere mai stata sfiorata dal famosissimo e ben radicato pregiudizio che, qualunque cosa una persona faccia, lega l’intelligenza alla comprensione della matematica e che, nel fracasso dell’esplicito o nel segreto dell’implicito, compie comunque il suo lavoro distruttore? Oggi so che è senza dubbio per il fatto di esserne rimasta immune che ho dovuto trovare altre spiegazioni a tutti questi fenomeni sgradevoli che sono le risposte ritenute assurde, gli errori giudicati grossolani ecc. Spiegazioni il cui cammino parte da una proposizione di base ricostruibile a posteriori: poiché né Claude (nessun Claude) né io siamo stupidi, allora qualche cosa è intervenuta come terzo incomodo “fra” Claude, o una classe di Claude, e me; qualcosa di vivo come tutti questi Claude e me. Qualcosa di attivo, anzi di attivista, capace, come l’uomo invisibile, di fare apparentemente levitare gli oggetti, di rovesciarne altri, di assemblare alcuni che non avrebbero mai immaginato di trovarsi assieme, di fare in modo che il cuscino di un divano fumi una sigaretta o che una poltrona vuota si dondoli.
E come in un racconto poliziesco o in un problema matematica, quando uno cerca un oggetto là dove è, lo trova. Ma sicuramente, questo terzo era sempre esistito per intero, invisibile, ma nel caso peggiore leggibile, nel caso migliore udibile. Perché è proprio quando lo crediamo assente che esso fa più rumore: imprevedibile quanto invisibile, appena uno crede di averlo individuato in un posto, hop!, lui ha cambiato campo, e di nuovo, nel fracasso di tutte le sue effrazioni, non ci si capisce più.
“Il rapporto fra 15 e 24? Non c’è.” “Perché?” “Non hanno niente di simile.” “Rapporto non è nel senso di rassomiglianza, ma di confronto.” “E una rassomiglianza, non è un confronto?” “Sì, certo, ma si tratta di un confronto di quantità.” “Di quantità? 24 è più grande dei 15.” “Sì, ma è un altro modo di confrontarli.” “15 è più piccolo di 24.” “Un altro modo, questo è lo stesso.” “Come lo stesso? È lo stesso dire più grande o più piccolo?” “No, certo, ma con un rapporto si ha a disposizione un numero…” “Ah, lo so, è 9 il rapporto.” “No, è lo scarto, cioè la differenza fra 24 e 15…” “Allora, che cosa è un rapporto come lo vuole lei?” “Non è come io lo voglio, è il senso che questa parola ha in matematica: è il risultato di un confronto per divisione.” “Chi ha deciso che si chiamasse così?” “Chi? Nessuno in particolare, credo…”
Scambi di questo genere, che non sono dialoghi fra sordi, ma, al contrario, dialoghi fra persone che capiscono “troppo”, avvengono a ogni piè sospinto, suscitati dall’essere invisibile che si torce, dal ridere, in tutti i sensi. Salvo quando la cosa si fa grave: “Insomma, esiste o non esiste?” “Esiste e non esiste.” “Come può esistere e non esistere?” “Come molte delle cose che sono idee…” “Chi ha detto che le parallele non si incontrano?” “È stato Euclide. Non l’ha detto, lo ha chiesto.” “A chi?” “A tutti, a tutti quelli che vogliono fare geometria, a te…” “E se uno non lo vuole?” “Be’, sono state inventate altre geometrie, ma sono decisamente più difficili…” “Allora no, non sono per me…” “Allora accetti?” “Eh sì, accetto. Chi era Euclide?”
Avrete capito, l’essere invisibile è un essere di senso. Non nel senso di senso di un teorema, di una definizione, di un enunciato: no. Questo è quello che io credevo prima di avere incontrato Claude. L’essere di senso in cui si parla è quello che, vigorosamente, suggerisce a Claude accostamenti apparentemente incongrui, prodotto di reazioni insolenti: le parallele che possono incontrarsi, le evidenze che non sono evidenti, gli esagoni che hanno quattro lati, zero che, essendo niente, non è un numero ecc. Oppure certe domande insolenti: “Poiché ci sono dei numeri quadrati, ci sono anche dei numeri rotondi?” “Perché ci chiedono risultati esatti? qualche volta possono essere inesatti?” Insolenti, veramente, dal latino insolentia (da solere, “avere l’abitudine”), propriamente, “che non hanno l’abitudine, che mancano di esperienza”.
Come potrebbe essere altro che “insolente” qualcuno che apprende, che non ha ancora l’esperienza di quello che non sa ancora? Come potrebbe evitare di fare errori “grossolani”, di porre domande “assurde”? Il tentativo di trasmettere, a qualcuno che non sa, qualcosa che si sa comporta un’andata e un ritorno, scritti e orali, di proposizioni, di domande, di risposte implicite. Come può chi insegna non accorgersi che in questo processo nessun errore è “grossolano”, nessuna risposta è “assurda”? Come può non accorgersi che, implicato in una battaglia che cerca di vincere, senza certezza di poter mai vincere la guerra, l’essere invisibile si scalda, balza, ricade, soffre, si calma, si scuote ecc. E che, evidentemente, se lo si lascia fare, non smette di perseguitare chi sa, o almeno chi crede di sapere, e lo costringe a misurarsi con i no, non sono d’accordo, non è logico, come, quando, che cosa viene dopo, è sempre così, e, soprattutto, sempre, perché si chiama così?
III. Dovendo giustificare e spiegare la matematica, che ammiravo per la sua coerenza, per il suo supposto rigore, essa mi è apparsa nella realtà del suo insegnamento, rigorosa solo localmente, logica solo a cose fatte, e, tirate le somme, più amabile di prima: mi avevano sempre nascosto le sue fratture, le sue fragilità, la sua umanità. In particolare, i matematici, nella loro sfida grandiosa e derisoria alla finitezza umana, con questo desiderio di creare degli esseri eterni, che sostengono proposizioni eternamente vere, mi commuovevano; perché, accanto e a causa di ciò, c’erano gli errori, i dubbi, le incertezze, e le ambizioni, le discussioni, i conflitti ecc.
Ma soprattutto, cosa inattesa, man mano che si elaborava, la matematica stessa, privata della sua superbia, ma sempre ricca di bellezza, mi inteneriva, perché mi appariva chiaramente che essa non poteva in alcun modo fare a meno di un pensiero, e quindi di un linguaggio, che veniva da altrove.
Per esporre, per iniziare, c’erano delle parole, parole necessarie, parole che, si è visto, sono di solito come pietre nella pozza, nel pantano, nella palude del senso; ma, per argomentare, per far capire, per distinguere, per dissociare ci volevano anche delle parole, senza le quali ogni costruzione matematica, supposta tuttavia autonoma, sarebbe affondata: solamente, queste parole-pilastro erano assenti. Si sono quindi dovuti offrire a Claude, che a volte le scopriva completamente e a volte no, delle parole-concetto, status, criterio, specifico, esplicito, implicito, …, delle quali occorreva servirsi tutti i giorni. Di qui i famosi progressi nell’apprendimento della lingua materna, a volte, anche, perturbazioni nei dialoghi familiari: “Non mi avevi detto esplicitamente di rientrare alle 7”, Oppure “Quali sono i criteri che ti fanno dire che questo film è stupido?”
Risultava dunque che un ortocentro, un vettore, un numero irrazionale, un polinomio avevano bisogno dell’aiuto di parole di quel tipo, ma che il reciproco non era evidentemente vero; che l’algebra aveva bisogno dell’alfabeto, ma il reciproco non era vero; che la matematica aveva bisogno del rigore che poteva apportare la lingua ordinaria, ma il reciproco non era vero; che la matematica aveva bisogno delle idee per costruire i suoi enti ideali, ma che il reciproco non era vero.
IV. Imparare a conoscere questa relazione di dipendenza fra la matematica e la lingua che la esprime è, fra l’altro, una delle possibili conseguenze, per chi l’insegna, dell’insolenza dei Claude del passato, del presente e del futuro. Bisogna ancora prendere questa insolenza per quello che è: una testa “che funziona”, una curiosità che va a caccia, una singolarità che, sommandosi a tutte le altre, disegna un profilo strano e sconosciuto del sapere. Ma se errori, domande, riflessioni, reazioni incontreranno, da parte di chi li giudica non pertinenti, solamente il famoso sospetto di inettitudine, che le avvelenerà e le farà seccare, allora deperirà assieme a loro l’essere di senso che, sempre invisibile, sarà ormai inudibile, perché l’avranno fatto tacere. Nelle risposte dell’automa non si leggono altro che gli stereotipi, quali che siano, di un sistema al quale occorre conformarsi sotto la minaccia di esserne rigettati; ma che, cosa terribile, rigetterà comunque chi ha voluto conformarvisi fingendo il senso in modo troppo alienante. Così alienante che là dove nessuno, mai, avrebbe dovuto trovarsi in difficoltà, si trovano, in realtà, tante e tante intelligenze che soffrono.
Perché, ancora una volta non si sa abbastanza quanto questa ipoteca su ciò che a tutt’oggi si crede essere una forma di intelligenza, ipotechi in realtà tutta l’intelligenza: in assenza di meccanismi di protezioni particolarmente elaborati, il sospetto di inettitudine pervade tutta l’attività scolastica. L’opinione corrente secondo la quale i bravi allievi sono bravi in tutto, e gli scadenti, scadenti in tutto, è un’altra tautologia: se un ragazzo viene reso scadente in un luogo dove si suppone regni la razionalità, è a tutta la sfera razionale sulla quale è basata la sua istruzione che si estendono la sua diffidenza, la sua paura, il suo scoraggiamento. Come, viceversa, una ritrovata fiducia nel senso delle cose della razionalità si estende spesso a tutte le cose.
V. La sola possibilità di cambiare qualcosa in tutte queste cose sta, fin dalla scuola dell’infanzia, nel considerare come perfettamente affidabili tutti i Claude di tutte le rive, di tutti gli ambienti, di tutti i colori: non si può immaginare quanto, in valore e in potere, questi “crediti” accumulati sulla testa di piccoli e grandi ragazzi sorpassino quelli di cui qualsiasi istruzione disporrà mai per riparare al male che essa avrà contribuito a fare, sospettando di intelligenze che, per schiudersi, dovrebbero essere al di sopra di ogni sospetto. Se non vi sono più ragazzi in difficoltà, ecco che l’essere invisibile può farsi sentire da chi lo vorrà; e chi lo vorrà potrà allora scoprire come un essere di senso, quale che sia, si nutre e vive di linguaggi, quotidianamente, per il meglio e per il peggio.
La Fontaine racconta che a Esopo era stato chiesto da Xanto, il suo padrone, di acquistare, per gli invitati, «ciò che c’era di meglio, e nient’altro”. Esopo “aveva acquistato solo delle lingue, presentate in tutte le salse… primo, secondo, intermezzi, tutto era fatto di lingue”. A Xanto, che chiedeva spiegazioni, Esopo replicò: ” Che cosa c’è di meglio della lingua […]: è il legame della vita civile, la chiave delle scienze, l’organo della verità e della ragione: grazie a essa si costruiscono le città […], si istruisce, si persuade, si conducono le assemblee”. “Ebbene”, disse Xanto, “…domani acquistami ciò che v’è di peggio…” L’indomani, Esopo fece servire gli stessi piatti, dicendo che la lingua è la cosa peggiore che vi sia al mondo: “È l’origine di tutte le dispute […], delle divisioni e delle guerre. Se si dice che è l’organo della verità, è anche l’organo dell’errore”».
Il meglio e il peggio delle cose: ciò che Esopo sapeva ventisei secoli fa, e che forse in altri luoghi del sapere è cosa nota, è vero anche in matematica, ma, prima di incontrare Claude, io non lo sapevo. Perché, fuori della portata del sospetto di inettitudine, Claude risponde e interroga, esclama e commenta, si scandalizza e fa dell’ironia, si giustifica e si stupisce. In breve, Claude è un essere vivo, un essere pensante, le cui reazioni alla matematica mi hanno chiarito che cosa è la matematica. E mi hanno mostrato come il bene più prezioso per accedere a questo sapere (come a qualsiasi altro) è che ci si possa anzitutto intendere su ogni questione riferendosi a essa: dunque che la condizione in ogni caso assolutamente necessaria, anche se non sufficiente, per la vita e la sopravvivenza dell’essere invisibile senza il quale non c’è insegnamento, è di tener conto di tutte queste lingue dello scambio, che passano dal familiare alla matematica e viceversa producendo tutte le varietà intermedie di “lingua di relazione nata dal bisogno di comunicare provato da gruppi di diversa madrelingua”. Bisogna metterle in questione, esplorarle, esplicitarle, sconfessare o giustificare le une mediante le altre, e in ogni caso nutrirle e fortificarle, perché, senza di esse, non c’è pensiero. Allora ci si accorge che l’intelligenza è una e che le forme che così volentieri le vengono date non si trovano “alla partenza”, ma “all’arrivo”: sono quelle di saperi dai contorni precisi, perché con linguaggi precisi; e, certo, l’interrogarsi sul senso in matematica fa fare dei progressi nella lingua.
La genesi di questo dizionario è dunque la parola liberata dal sospetto, a sua volta liberatrice dell’intelligenza, che può allora apprendere ogni forma di intelligibilità. Poiché in questa impresa le lingue sono ciò che c’è di meglio e anche di peggio, avendo dovuto, con Claude, per più di un quarto di secolo, affrontare il peggio, ho pensato che un dizionario avrebbe potuto cercare di attenuarlo per i Claude del futuro. Ma, affrontando il peggio, abbiamo anche incontrato il meglio: quindi devo a Claude l’avere provato e verificato che i linguaggi utilizzati in ogni trasmissione del sapere potevano anzi dovevano essere il meglio, e l’avere dunque avuto voglia di fare questo dizionario per tentare di contribuirvi.
Ringraziamo ancora una volta Stella Baruk per aver avuto voglia di fare questo dizionario: facciamo il tifo per il tentativo di tutti i Claude che incontriamo nelle nostre classi e non solo… Siamo stati Claude e un po’ lo siamo – e vogliamo esserlo – ancora.
Io sono Claude, “un essere pensante che risponde e interroga, esclama e commenta, si scandalizza e fa dell’ironia, si giustifica e si stupisce […]”, un essere le cui reazioni alla matematica mi chiariscono ogni giorno di più che cosa è la matematica.
Buona matematica a tutti!