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INSEGNARE senza effetti speciali
- 29/05/2017
- Pubblicato da: Luigi Regoliosi
- Categoria: DAL WEB MATEMATICA SCUOLA
Dopo il weekend in cui tanti (tutti?) hanno omaggiato Francesco Totti, un campione – e forse un maestro – di un altro ambito a me particolarmente caro…
negli ultimi giorni che ci separano dalla fine della scuola…
prima dei saluti finali ai nostri allievi che rivedremo cresciuti dopo l’estate oppure non rivedremo più in classe perché chiamati altrove o noi o loro…
in questi giorni di relazioni finali, programmi svolti e di bilanci…
…voglio rendere omaggio a chi mi è stato maestro, Giorgio Israel, che ha combattuto per l’educazione, per la scuola, per l’università e continua a farlo anche da lassù con tutto quello che ci ha lasciato!
In un articolo uscito 8 anni fa su Il Messaggero, il prof. Israel parlava di cosa vuol dire insegnare. Di seguito riporto l’articolo dal titolo evocativo “Insegnare senza effetti speciali”. Antepongo due riflessioni personali su questo tema.
- A chi non è mai capitato di sentire la famosa espressione: “Non sono proprio portato/a per la matematica!” oppure “Mio figlio e la matematica non vanno d’accordo!”??? Ho avuto più volte occasione di sentire frasi simili nei colloqui con i genitori dei miei allievi o anche con amici e parenti. Voglio sottolineare però una parola che mi colpisce sempre: “portato”. E chi (non) ti ha portato? Un (non) maestro! E vale per la musica, per l’arte, per le lingue, per lo sport… L’insegnamento è un rapporto e abbiamo bisogno di maestri! Dunque, per tutti noi c’è stato qualcuno che ci ha portato o non ci ha portato alla matematica! La responsabilità di portare e non portare è di noi adulti – docenti e genitori – che dobbiamo e possiamo provarle tutte per portare i nostri ragazzi a comprendere gli aspetti elementari di questa disciplina. Così, c’è chi diverrà Einstein e chi semplicemente avrà fatto dei passi importanti nell’uso della sua ragione e della sua capacità d’osservazione: come quando si suona uno strumento non si diventerà per forse dei grandi musicisti, o quando si dipinge non si diventerà Van Gogh, ma, se avremo avuto l’opportunità di lavorare ed imparare con dei maestri, saremo entrati dentro la musica, dentro la pittura, e allora sì che potranno dire “guarda quello com’è stato portato ALLA musica, ALLA pittura, ALLA MATEMATICA!”
- La seconda riflessione più breve è legata al titolo dell’articolo di Israel: non c’è bisogno di effetti speciali o di fuochi d’artificio per insegnare matematica oggi! Ma non va dimenticato che distratto è il contrario di attratto! Perciò, torno ancora alla nostra responsabilità: non possiamo lamentarci del fatto che i nostri allievi siano distratti – o più distratti di ieri – ma occorre andare a sfidarli su qualcosa di veramente attraente per il contenuto che ha anzitutto per noi e poi per loro! Se non parliamo ai nostri ragazzi di qualcosa che amiamo, che vale la pena incontrare e conoscere, che ci apre alla scoperta di noi stessi e del mondo, se le nostre lezioni non hanno un contenuto attraente neanche per noi, come possono attrarre i nostri alunni distratti? Davvero pensiamo che il fidget spinner o lo smartphone possano essere più interessanti della nostra lezione?
Buona fine dell’anno scolastico, buona avventura dell’insegnamento a tutti e grazie Giorgio!!!
Insegnare senza effetti speciali
Si tratta di affermazioni “retoriche” nel senso cattivo del termine. L’insegnamento partecipato e che vede l’intervento attivo dell’allievo è vecchio di più di duemila anni – quantomeno fin dall’accademia peripatetica – e non esclude affatto l’utilità delle lezioni “ex-cathedra”. Piuttosto, nell’ansia di compiacere i giovani e accattivarseli – secondo quello stile dei vecchi privi di dignità bene descritto nella Repubblica di Platone – abbiamo trascurato l’importanza di ascoltare. Bisognerebbe leggere nelle scuole e nelle università l’Arte di ascoltare di Plutarco per rammentare che «se è vero che chi gioca a palla impara contemporaneamente a lanciarla e riceverla, nell’uso della parola, invece, il saperla accogliere bene precede il pronunciarla, allo stesso modo in cui concepimento e gravidanza vengono prima del parto» e che occorre apprendere, ascoltando un altro, a evitare di «agitarsi o abbaiare a ogni sua affermazione, e anche se il discorso non è troppo gradito, pazientare e attendere che chi sta dissertando sia arrivato alla conclusione» e poi «guardarsi dall’investirlo subito di obiezioni» ma prima riflettere a fondo.
Perciò, il necessario coinvolgimento dell’allievo (più in generale, dell’ascoltatore) nel discorso deve essere preceduto da una presentazione organica e pienamente dispiegata. E ciò significa anche presentare bene, con un’arte del discorso. Non si tratta di un aspetto formale, bensì profondamente sostanziale. Chi presenta bene ha pensato a fondo a come rendere chiari e trasparenti i concetti che vuol comunicare e il dispendio di tempo ed energie che ha posto in quest’opera esprime il rispetto che porta per chi ascolta. Egli non si limita a sciorinare piattamente una serie di concetti per abbandonarli subito alla discussione, ma impegna tutto se stesso in una presentazione convincente, chiara e anche appassionata. Con questa passione trasmette l’importanza che egli attribuisce a quel che dice e sottolinea gli aspetti che lo studio e la riflessione gli hanno fatto ritenere fondamentali. Pertanto l’arte retorica è una componente fondamentale del discorso e dell’insegnamento. Lo sa bene chi abbia avuto un vero maestro, uno di quelli che sanno appassionarti a una materia e sanno stabilire un dialogo autentico, non l’abbaiare fintamente democratico di cui parla Plutarco.
Tra le manifestazioni di falsa democrazia va annoverato un certo stile disinvolto di insegnanti che si presentano in aula con l’aria del genio pazzo, trascinando sulle ciabatte jeans sdruciti per propinare sciattamente una filastrocca di nozioni in cui l’arte retorica si riduce a ravvivare l’esposizione con battute umoristiche. Si trascura il fatto che lo stile impresso a un incontro intellettuale ne determina il livello dei contenuti e un certo rigore (non formale) induce a pensare in modo riflessivo e non superficiale.
L’introduzione di nuovi e potenti mezzi tecnologici – dall’ormai arcaica lavagna luminosa alle presentazioni multimediali “powerpoint” mediante il calcolatore, fino alle lezioni registrate scaricabili in rete – richiedono un ripensamento delle modalità dell’insegnamento e della comunicazione intellettuale. Da un lato, sarebbe puerile e vano pensare di farne a meno: si rischierebbe di fare come quel mio lontano parente che, proprietario di una ditta di trasporti a cavallo, all’apparire dei camion disse «non dura», e naturalmente fallì. D’altro lato, non bisogna dimenticare che ogni strumento tecnologico non deve diventare il fine bensì essere piegato a un fine, che è quello di comunicare pensieri e concetti. Pertanto l’arte retorica non scompare con i nuovi strumenti ma deve assoggettarli.
Purtroppo spesso accade il contrario: insegnanti e conferenzieri (ma anche laureandi) ridotti a bacchette che indicano liste di concetti numerati in una “slide”. L’autore della presentazione scompare: egli legge con gli astanti quanto è scritto nella presentazione. Nessuno gli bada, tutti guardano lo schermo, nella noia mortale di una voce inevitabilmente piatta e anonima. Non c’è pathos partecipativo e la lista della spesa dei concetti perde ogni forza di convincimento. In fondo, non si sa più neppure se chi la presenta l’abbia pensata davvero o l’abbia scopiazzata da qualche parte. Tanto è evidente il rischio della noia e del disinteresse che i programmi informatici offrono una pletora di “animazioni” volte a ravvivare l’attenzione: potrebbe darsi una prova migliore di quanto l’arte retorica sia necessaria? Ma chi usa queste animazioni in modo passivo anziché funzionale ai suoi scopi, ne cade vittima. Ricordo il caso di un conferenziere che ricorse a tutte le animazioni visive e sonore possibili, dal rumore di vetri infranti allo scroscio d’acqua, fino a che dal fondo della sala un sarcastico «troppi effetti speciali!» demolì la conferenza in una risata generale.
L’arte retorica è ineliminabile. Tanto vale porre al centro quella autenticamente umana. In quest’ottica un uso molto parco e accuratamente pensato dei mezzi tecnologici può essere efficacissimo: qualche immagine di un personaggio di cui si parla, una citazione importante di un paio di righe al massimo e, quando si vuol concentrare pienamente l’attenzione su quanto si dice, uno sfondo vuoto. Al contrario, chi sostituisce la tecnica retorica con quella formalizzata nel programma informatico riduce se stesso a un imbarazzante burattino di cui non si sa neppure se sia capace di pensare autonomamente. Per questo motivo l’uso delle presentazioni “powerpoint” nelle sedute di laurea andrebbe vietato (con l’eccezione dei materiali contenenti grafica complicata). Quanto a chi crede che le lezioni possano essere sostituite completamente da registrazioni scaricabili in rete, non si rende conto che una lezione (come qualsiasi comunicazione orale) è innanzitutto una relazione tra persone che trae il suo fascino e trova la sua pienezza in un rapporto che deve avere una fisicità, una collocazione spazio-temporale definita. Non rendersi conto di questo e pensare di poter eliminare la relazione interpersonale diretta non può che aprire la strada a forme gravi di degrado intellettuale e culturale.
(Il Messaggero, 4 maggio 2009)