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Leggere a scuola – “La leggenda del santo bevitore” (Roth 1939)
Joseph Roth 1939, La leggenda del santo bevitore
Normalmente assegno questo breve romanzo all’inizio del quarto anno, come introduzione ideale al Purgatorio dantesco. Quest’anno, tuttavia, in seguito a un giro di interrogazioni programmate, mi sono accorto che era necessario proporre subito una simile lettura ai miei studenti del terzo.
Lo hanno letto subito dopo aver terminato lo studio di Dante e Petrarca in letteratura. Già ci eravamo confrontati, in particolare con lo studio di Petrarca, sul cambiamento introdotto dal poeta fiorentino nella concezione della “moralità” medievale. Avevamo studiato e approfondito la figura del “santo medievale” uomo in cui ideale e reale coincidevano o per meglio dire uomo in cui la tensione all’ideale pervadeva e invadeva tutti gli aspetti dell’esistenza. I ragazzi avevano capito, ma in astratto.
Sono riuscito fin dall’inizio dell’anno a farli appassionare alla lettura della Commedia che leggono e analizzano con un buon grado di competenze. Dante li ha infervorati ed entusiasmati, lo seguono nel suo cammino del tutto umano del viaggio ultraterreno, “svengono”, si commuovono, cadono e si rialzano insieme con lui. In Petrarca però hanno rivisto l’uomo moderno, l’uomo diviso, in cui la tensione all’ideale non è più un orizzonte dentro la vita, ma uno sforzo di perfezionamento molto spesso frustrante e talvolta titanico.
Dal giro di interrogazioni mi sono accorto di avere davanti un buon numero di “Petrarchisti” che puntano alla laurea e perdono di vista il gusto per il sapere. Soprattutto i più bravi si sono preparati alle verifiche con un grande sforzo, talvolta titanico: hanno accumulato un numero imponente di informazioni, ma tutto questo sforzo si è risolto in uno sciorinare una conoscenza enciclopedica, con la conseguente perdita (ma dantescamente userei l’espressione “smarrimento”) del gusto per lo studio e per il sapere che li ha sempre contraddistinti. Mi sono interrogato sulle possibili cause di un simile atteggiamento: certamente influisce il momento storico particolare, le particolari condizioni di vita e di studio che sono costretti ad affrontare. Da parte mia non ho mai preteso da loro questo tipo di conoscenza. A questo punto mi è venuto in mente il “santo bevitore”. Assegnando loro il romanzo di Roth ho voluto in qualche modo provocarli a recuperare quella posizione originale che avevano manifestato e mantenuto nel corso del biennio. Per questo ho voluto metterli di fronte a un uomo esattamente all’opposto della loro ricerca di perfezione, un uomo la cui vita trascorre fra locande, postriboli, incontri più o meno casuali e improbabili e via dicendo. Andreas non è certo uno “stinco di santo”, eppure per tutto il corso del racconto non perde mai di vista ciò che gli preme di più, ciò che ha di più caro: restituire i 200 franchi alla “piccola Therese”. Qualunque cosa lui faccia, qualunque incontro distolga la sua attenzione dalla meta, lui torna sempre lì con il pensiero e con il cuore. Non si attarda o indugia nel giudicarsi indegno di tanta grazia, come invece fa Petrarca in più di un’occasione: ha sempre in mente quell’ideale, la “piccola Therese”. In questo senso il capitolo finale del racconto, le ultime parole di Roth sono di una bellezza straziante e disarmante. Andreas muore sotto gli occhi e tra le braccia della “piccola Therese”.
Le reazioni alla lettura sono state molto diverse: alcuni hanno giudicato il povero Andreas, dicendo che non ha trovato la forza di cambiare (di nuovo lo sforzo della mutatio vitae petrarchesca si è impossessata di loro e del loro giudizio). Altri invece sembrano aver colto la provocazione.
La mia intenzione era quella di porli davanti a un’altra realtà, magari lontana dal loro modo di concepire e di sentire; era quella di provocarli senza moralismi sui moralismi. Alla fine ho sintetizzato la discussione sul libro con il celebre passo di Eliot che, a mio modo di vedere, descrive perfettamente l’ideale del “santo bevitore”:
Quindi giunsero, in un momento predeterminato, un momento nel tempo e del tempo,Un momento non fuori del tempo, ma nel tempo, in ciò che noi chiamiamo storia: sezionando, bisecando il mondo del tempo, un momento nel tempo ma non come un momento di tempo,Un momento nel tempo ma il tempo fu creato attraverso quel momento: poiché senza significato non c’è tempo, e quel momento di tempo diede il significato.Quindi sembrò come se gli uomini dovessero procedere dalla luce alla luce, nella luce del Verbo, Attraverso la Passione e il Sacrificio salvati a dispetto del loro essere negativo;Bestiali come sempre, carnali, egoisti come sempre, interessati e ottusi come sempre lo furono prima, Eppure sempre in lotta, sempre a riaffermare, sempre a riprendere la loro marcia sulla via illuminata dalla luce; Spesso sostando, perdendo tempo, sviandosi, attardandosi, tornando, eppure mai seguendo un’altra via”.
T.S. Eliot, Cori da “La Rocca”
Buona lettura!